‘Poenta e pesse’, le due squisite specialità di Venezia

di Giovanni Manisi

Polenta e baccalà

La cucina di Venezia come ci viene tramandata è in realtà l’espressione della ricchezza della città e del suo cosmopolitismo ed ha poco a che fare con la cucina dell’interno ed anche della Venezia Orientale. Possiamo dire che gli unici elementi davvero in comune sono la polenta ed il baccalà. Per il resto l’alimentazione veneta è dominata da quattro elementi: polenta, riso, ortaggi e fagioli. Nelle zone costiere e nelle lagune ovviamente il protagonista è il pesce, mentre nelle zone interne compare la carne, comunque poca, ed in genere si tratta di animali da cortile, spesso, il quinto quarto, ovvero gli scarti. Tuttavia su questa tavolozza di sapori limitata si sviluppa un ventaglio di piatti che meritano di essere ricordati e che qui hanno trovato nelle confraternite chi ne conserverà la memoria. Ma iniziamo per ordine.

La polenta

“Se el mare fosse de tocio, e i monti de polenta, o mamma che tociade, polenta e bacalà…” è una strofa tratta dalla canzone popolare “La mula de Parenzo” in dialetto istroveneto, molto conosciuta in tutta la zona del Litorale Austriaco, regione dell’Impero austro-ungarico che andava dalla Dalmazia alla Venezia Orientale.

È particolarmente interessante perché ci introduce alcuni tra gli elementi più caratterizzanti della cucina popolare veneta: polenta e baccalà.

La polenta di mais arriva in Veneto e Friuli nella prima metà del ‘500 ed inizia ad essere coltivata in maniera intensiva nel Polesine, nel basso veronese e nel trevigiano poiché la Serenissima ne coglie da subito l’importanza come alimento di base per far fronte alla scarsità di cibo. La polenta di mais sostituisce così quella di sorgo rosso, alimento piuttosto triste che verrà relegato all’alimentazione per gli animali, nell’alimentazione dei contadini. Il frumento valeva infatti il doppio e veniva venduto per fare il pane. Da allora la diffusione del mais nelle campagne venete e friulane si è sviluppata praticamente ovunque ed è diventata accompagnamento inseparabile di molti piatti della tradizione: polenta e pesce, polenta e tòcio, polenta e formajo, polenta e bacalà. Il colore è questione geografica: a Venezia e nel suo entroterra si mangia polenta bianca; nel Veneto occidentale ed in Friuli quella gialla. A Venezia la polenta gialla è riservata alla servitù, lo sappiamo grazie alla scena della preparazione della polenta ne “La donna di Garbo” di Carlo Goldoni, da cui apprendiamo anche che la polenta era condita e rappresentava un piatto unico per i poveri.

Veniva aggiunto un po’ di burro, un po’ di formaggio grattugiato o il sugo avanzato dalla tavola dei signori (ecco l’origine del piatto polenta e tòcio) per un risultato certamente sostanzioso anche se estremamente povero da un punto di vista alimentare. Solo in temi recenti, dalla metà del secolo scorso, la polenta diventa un accompagnamento per piatti a base di pesce, carne o formaggio

A proposito, qui il mais è conosciuto come granoturco, non perché proviene dalla Turchia ma perché al tempo turco era sinonimo di esotico ed i veneziani, per nascondere la provenienza di alcune merci molto preziose, come le spezie, indicavano questo paese a metà tra Occidente e Oriente come paese di provenienza.

Il baccalà

Il baccalà arriva a Venezia ancora prima, nel 1400. La storia che porta alla sua scoperta e diffusione è davvero affascinante e avventurosa e merita di essere raccontata. Siamo nell’aprile del 1431 quando Pietro Querini salpa da Creta per le Fiandre con una nave carica di merci. A dicembre la nave farà naufragio ed i marinai cercheranno la salvezza a bordo di due barche a remi. Di 68 se ne salveranno solo 11, tra cui Querini, il capitano della sfortunata spedizione, tratti in salvo dagli abitanti di una piccola isola nelle Lofoten, oltre il Circolo Polare Artico. Tornati a Venezia, nel maggio del 1432, i superstiti racconteranno della pratica degli abitanti di pescare il merluzzo per poi essiccarlo al vento del Nord e venderlo o barattarlo con i mercanti tedeschi.
Ma per un secolo quella dello stoccafisso rimarrà solo una storia curiosa, dal momento che in mare ed in laguna di pesce ce n’è in abbondanza e Venezia non ha bisogno di pesce secco e, per giunta, puzzolente.

Nel 1563 si conclude il Concilio di Trento, in cui vengono anche elencati i cibi grassi ed i molti giorni, ben 150 l’anno, in cui questi non dovranno essere consumati. Fu allora che i veneziani decisero di tornare a Bergen, dove i pescatori scendevano per vendere lo stoccafisso, a rifornirsi di quel pesce secco che poteva costituire una riserva di cibo per i giorni di magro, soprattutto nell’entroterra. E fu così che lo stoccafisso entrò nella tradizione culinaria della Serenissima. Lo stoccafisso cambierà il nome in baccalà nel periodo della dominazione spagnola, protrattasi fino al 1700, poiché questo era il nome del merluzzo conservato sotto sale dai portoghesi.
In onore di questa tradizione in Veneto sono nate due onorate confraternite: la Venerabile Confraternita del Baccalà alla Vicentina e la Serenissima Confraternità del Baccalà Mantecato. 

Sarde in Saòr

Un altro piatto simbolo della cucina veneta e veneziana sono le Sarde in Saòr. Saòr significa “sapore” poiché più passa il tempo, più il piatto acquista sapore. Si tratta di un’antica tecnica per conservare il pesce nei lunghi viaggi per mare, che in origine utilizzava il pesce più abbondante ed economico, le sarde, le cipolle, l’aceto.  Solo più tardi e solo a Venezia si useranno gli sfogéti, ovvero piccole sogliole, al posto delle umili sarde e si aggiungono alimenti pregiati come l’uva sultanina ed i pinoli, segno dell’introduzione a Venezia dei gusti orientaleggianti. Piatto immancabile per festeggiare il Redentore, il Saòr oggi si trova nei bacari e nei ristoranti preparato con le sarde, come alle sue origini, o nella versione moderna, preparato con i gamberi.

La tradizione di piatto povero di sussistenza durerà fino a tempi più recenti a Caorle, quando i pescatori lo portavano nelle lunghe permanenze nei casoni in laguna, per avere qualcosa da mangiare nei giorni in cui non si poteva pescare.

La renga

Altra tradizione molto radicata nella Venezia Orientale ed in particolar modo a Concordia Sagittaria e di cui viene custodita la memoria è quella della Renga. Anche questa usanza deriva dall’esigenza di mangiare magro ed è molto radicata nell’entroterra veneto. L’aringa è un pesce che vive in banchi enormi nelle acque fredde dell’Atlantico settentrionale e dell’Oceano Artico. Partita dai Mari del Nord, passando da Venezia, arrivò nell’entroterra prendendo il nome di “renga” ed adattandosi alle povere tavole contadine venete.

Vero cibo simbolo della povertà del periodo, povera e secca, ma forte di sapore e di odore; una sola aringa bastava per tutta la famiglia. L’usanza di un tempo   nelle zone povere del Veneto e del Friuli era quella di strofinare un’aringa affumicata sopra delle fette di pane per profumare il pane. Addirittura, si racconta, che nelle case più povere la tenevano appesa al soffitto o ai bordi del fogolar, ad altezza d’uomo, per sfregarla sopra il pane.

L’usanza di mangiare questo pesce era così forte e sentita che i giorni di Quaresima venivano chiamati anche “i giorni della renga”. Per mantenere questa importante memoria storica, la Pro Loco di Concordia Sagittaria alcuni anni fa ha pensato di rivitalizzare la tradizione istituendo il concorso «La renga d’oro» fra i ristoratori locali. Da subito l’evento è entrato nel cuore dei concordiesi e non solo ed i ristoratori hanno sempre sostenuto con impegno e passione questo evento, contribuendo a farne uno degli appuntamenti enogastronomici più importanti ed interessanti della zona.

Pasta e fasoi

I fagioli arrivano in veneto contemporaneamente al granturco e diventano subito la fonte proteica vegetale preferita in queste terre. La sua espressione migliore e di gran lunga la più famosa nei ricettari di cucina veneta è la pasta e fasoi, una ricca e densa minestra che veniva preparata soprattutto in autunno, quando per tradizione nelle famiglie contadine si macellavano i maiali e c’era una grande disponibilità di cotenne fresche. La cotenna (o cotica) è la pelle del maiale; un alimento molto usato nella cucina contadina, quando del maiale non si buttava via nulla. L’origine della ricetta della Pasta e Fasoi è contesa soprattutto dalle città di Venezia, Padova e Verona.

Risi e bisi

Il riso arriva dal mondo arabo in seguito ai commerci veneziani con l’Oriente e dalla prima metà del 1500 viene coltivato nelle pianure del veronese. Le sue colture sono alimentate da acqua di risorgiva e la zona tipica di produzione, tutta attorno al comune di Isola della Scala, comprende anche i territori di una ventina di altri comuni. I motivi che fanno del riso veronese, ed in particolare del vialone nano, un riso speciale sono il terreno alcalino, le acque di risorgive, che provengono dal sottosuolo da rocce calcaree, il fatto che le colture avvengono in avvicendamento riducendo l’utilizzo di sostanze chimiche. La qualità di questo riso ha determinato la creazione di circa quaranta piatti diversi a base di riso. Gli scambi che passavano dal Veneto Orientale portano qui il riso che sembra ambientarsi perfettamente dando vita ad alcuni piatti rimasti tra i più classici della tradizione. I più famosi sono “risi e bisi”, ovvero riso e piselli e “risi e figadini” ovvero riso con interiora di pollo e “risi e tochi”, riso con gli scarti del pollo (come ossa, pelle, zampe) ma ce ne sono altri, soprattutto a primavera, con erbe selvatiche come i “bruscandoli”, ovvero i fiori del luppolo selvatico o con le ortiche e perfino con rane e lumache. Il riso, insomma, permetteva di creare un piatto con tutto ciò di commestibile che si trovava nei campi e nei fossi. E proprio qui, nella zona tra i fiumi Lemene e Livenza, è attiva la confraternita dei “risi e tochi”.

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